12 ott Cos’è esattamente il concordato “in bianco”?
Da qualche tempo ricorre assai spesso nelle conversazioni non solo tra colleghi e imprenditori ma anche tra semplici curiosi il termine “concordato in bianco”, famigerato leviatano del quale spesso si hanno nozioni frammentarie (“serve solo a guadagnare tempo”, la più comune) ma mai un punto di vista unitario.
Fino al 2012, onde consentire una rapida presentazione del ricorso per ammissione alla procedura di concordato preventivo, il Tribunale aveva facoltà di concedere, a valle della presentazione del ricorso, un termine non superiore a 15 giorni per apportare integrazioni al piano e produrre nuovi documenti. La ratio, era quella di permettere all’imprenditore di presentare la domanda il più rapidamente possibile, facendo scattare gli effetti preclusivi alle azioni dei singoli creditori di cui agli artt. 167,168 e 169 R.D. 267/1942 (cd. Legge Fallimentare). Si tenga infatti presente che la redazione (seria) di una proposta, la raccolta dei relativi documenti e la stesura della relazione ad opera del professionista, occupano parecchio tempo e sforzi, che risulterebbero vanificati se nel frattempo qualsiasi creditore potesse proseguire le proprie azioni individuali.
Con DL83/2012, convertito in Legge 134/2012, è stata quindi introdotta la possibilità di presentare domanda di concordato con riserva (anche detto, difatti, “in bianco”) con la quale è possibile, appunto, far scattare gli effetti protettivi tipici del concordato dalla data della pubblicazione del ricorso nel registro delle imprese, presentando però proposta, piano e documenti entro un termine successivo, fissato dal Giudice tra 60 e 120 giorni e prorogabile fino ad altri 60 (nel medesimo termine, il debitore potrebbe anche “modificare” la sua richiesta in una domanda di omologazione per accordo di ristrutturazione dei debiti ex art 182 bis). Primo vaglio è la richiesta di presentare, con la domanda, i bilanci degli ultimi 3 esercizi, oltrechè, mensilmente, una situazione finanziaria dell’impresa.
Senonché, è facile intuire che una tale apertura di credito – ed essendo il primo deposito della domanda e documenti un atto meramente formale – ha dato il via alla famosa rincorsa alle presentazioni, troppo spesso al solo fine di dilazionare i tempi del fallimento, dando al concordato con riserva la sua poco onorevole reputazione di “trucchetto” per ritardare il fallimento, magari mettendo nel frattempo al sicuro i propri asset.
Il legislatore è quindi intervenuto con DL 69/2013, convertito in Legge 98/2013, sostanzialmente potenziando il potere di vaglio del Tribunale all’atto della presentazione della domanda di concordato:
- alla domanda va aggiunto l’elenco dei creditori con i relativi crediti;
- il Tribunale, col decreto che fissa il termine per la presentazione del piano, può nominare un commissario giudiziale, il quale svolgerà attività di vigilanza sulle azioni del debitore;
- al debitore sono addossati maggiori obblighi informativi, previsti dall’art. 161 co VIII.
Alla presentazione del piano completo entro la scadenza dei termini sopra indicati, pertanto, il Tribunale, con decreto non soggetto a reclamo, potrà o ammettere il soggetto alla procedura vera e propria, oppure dichiarare inammissibile la proposta (è interessante notare che il ricorso si potrebbe pure riproporre e che l’inammissibilità non porta automaticamente alla dichiarazioni di fallimento, atteso che potrebbero mancare alcuni dei presupposti ex art. 1 L.F.).
Su come il Tribunale debba vagliare il piano, si sono pronunciate le Sezioni Unite, stabilendo che il controllo deve avere ad oggetto la fattibilità giuridica del concordato (intesa come legittimità delle modalità attuative ivi prospettate) mentre la fattibilità sul piano economico ricade sui creditori, i quali infatti avranno successivamente diritto di voto (i chirografari sempre, i privilegiati solo se il piano non prevede la loro integrale soddisfazione).
Qui un riassunto delle ulteriori e recenti modifiche portate con D.L. 183/2015.
Avv. Domenico Balestra