Concorrenza sleale e normativa italiana

23 ott Concorrenza sleale e normativa italiana

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Spesso mi vengono richiesti da imprenditori e manager consigli su come muoversi in un mercato nel quale la concorrenza è ormai portata allo stremo e ogni giorno si perdono (o, più sperabilmente, si acquistano) clienti a favore (o sfavore) di altre imprese concorrenti.

Se, infatti, solitamente l’entrepreneur si preoccupa della normativa sulla concorrenza soprattutto quando è “sotto attacco” da parte di qualche concorrente più aggressivo o spregiudicato, è altrettanto vero che i businessmen più attenti e lungimiranti tendono invece ad utilizzare le possibilità (o i bug) del sistema per mettersi loro stessi in posizioni d’attacco del tutto lecite e legittime.

Peraltro, la normativa di settore è oggi pesantemente condizionata anche dal diritto comunitario, apparendo quindi opportuno suddividere l’argomento in due brevi trattazioni e occupandoci oggi delle regole dettate dal legislatore italiano.

Il codice civile, agli articoli 2598-2601, riassume i principi base della concorrenza sleale.

Caratteristiche comuni a tutti i tipi di condotta sono:

  • in linea di massima, non rileva l’elemento psicologico (dolo o colpa). Questa impostazione è coerente con la struttura generale, non essendo le condotte prese in esame dei veri e propri reati (e difatti le norme sono tutte contenute nel codice civile). Vi sono peraltro delle eccezioni sia per quanto concerne il caso, ovviamente più grave e punito penalmente, della frode (art. 515 codice penale) sia per ciò che riguarda il diritto al risarcimento del danno, per avere il quale è necessario appunto il requisito del dolo o della colpa;
  • peraltro, la colpa è presunta una volta accertato l’atto di concorrenza, lasciando quindi il gravoso onere della prova contraria e liberatoria al soggetto agente;
  • sanzioni tipiche sono quelle dell’inibitoria alla continuazione degli atti e della rimozione dei relativi effetti.

 

Ma quali sono esattamente le condotte che danno origine a concorrenza sleale?

L’articolo 2598 c.c. prova a farne un elenco, ma come è facile intuire, le casistiche sono infinite e non è possibile dare qui un resoconto completo: infatti, se ai numeri 1 e 2 il legislatore ha definito precisamente alcuni atti sleali tipici (nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione, imitazione servile, atti di denigrazione e appropriazione di pregi), al numero 3, con una classica norma di chiusura del sistema, è stata prevista la punibilità di “ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda“.

Tra questi, i più diffusi risultano essere, ad esempio, la concorrenza parassitaria, il dumping e il cd. “storno di dipendenti”.

Viceversa, non sempre è classificato quale atto sleale la cd. pubblicità comparativa, disciplinata in maniera specifica dal D.Lgs. 145/2007 e considerata lecita se fondata su dati oggettivi e verificabili e se non procura all’autore un vantaggio indebito tratto dall’altrui notorietà.

E’ interessante notare, a tal proposito, che mentre la disciplina di cui sopra si applica trasversalmente a tutte le categorie di soggetti, le norme del codice civile prima esaminate si applicano solo tra imprenditori o associazioni professionali che li rappresentino.

Pertanto, il consumatore non potrà mai invocare le sanzioni di cui agli articoli 2599 e 2600 c.c., ma è oggi ben più tutelato, come abbiamo visto in un precedente articolo, dal cd. “codice del consumo“.

Avv. Domenico Balestra